I personaggi di Wong Kar-wai sono destinati alla solitudine, vittime e carnefici dei loro sentimenti contraddittori. “Hong Kong Express” racconta due storie (apparentemente) parallele che si toccano – o meglio si sfiorano – e che sono storie d’amore “senza amore”. Una pellicola che sovverte i tempi della narrazione (è l’inizio, infatti, che racconta la fine), e in cui tutto ha una data di scadenza e, ovviamente, anche l’amore.
L’agente 223, abbandonato dalla sua fidanzata, incontra e s’innamora di una misteriosa donna, implicata in un traffico di droga; un altro poliziotto, numero di matricola 663, anche lui appena lasciato dalla sua donna, fa la conoscenza di una ragazza che lavora nel chiosco di un fast food. “Un lampo…e poi la notte! Bellezza fuggitiva, il cui sguardo mi ha fatto rinascere di colpo, non ti rivedrò più fino all’eternitá?”, ha scritto Baudelaire in “A una passante” – una delle poesie più belle de “I fiori del male” – parlando di quegli incontri inattesi che cambiano la vita. La poetica di Baudelaire, caratterizzata dall’unione ossimorica di elementi contrastanti (bene/male, idillio/disarmonia) – abbraccia facilmente quella di Wong Kar-wai, una sorta di poeta del tempo e della memoria, capace di raccontare tormenti, disperazioni e solitudini in modo seducente e profondo.
Parte tutto da un incontro: un’apparizione fugace, come la rappresentazione di un “bene” che è possibile sperimentare solo per pochi istanti. Un incontro che non necessariamente comporta “qualcosa”; eppure qualcosa accade, anche che si tratti solo di una “promessa” – sancita dagli sguardi – di un amore desiderato. Se quel “bello” non viene colto immediatamente però, rischia di svanire di nuovo in mezzo al disordine della realtà (o, meglio, di un mondo senza “bellezza” e, cioè, senza arte): quell’incontro rappresenta, quindi, un’opportunità di una storia d’amore o anche solo di un’idea, di un “movimento”.
“Hong Kong Express” ha solo l’aspetto di un sogno o è realmente un sogno? Costantemente accompagnati da canzoni che contengono la parola “sogno” (“California Dreamin” dei Mamas and Papas e “Dream Person”, cover di “Dreamscape” dei Cranberries, cantata proprio da Faye Wong), gli spettatori si trovano a vivere uno di quegli infiniti incontri possibili nella moltitudine; quegli incontri che spesso si sognano, ma che non si realizzano mai. In un mondo in cui tutto ha una data di scadenza, a che cosa ci si “aggrappa”? Esiste qualcosa che “non abbia un tempo”? Forse soltanto l’amore può essere dilatato, espanso, rallentato o bloccato. Le inquadrature strette e soffocanti rappresentano la solitudine di due personaggi “senza nome” che si innamorano – anche solo per un momento – e realizzano che quell’innamoramento può avvenire “ancora una volta”. Wong Kar-wai “si affanna” a rincorrere il tempo e a catturare ricordi: così come “In The Mood For Love”, le coincidenze possono trasformarsi in occasioni per colmare vuoti che sembravano abissali.
Wong Kar-wai sfugge ai tentativi di classificazione. Il suo è un cinema potente, sensoriale, salvifico, che si mantiene in equilibrio tra intuizione e controllo e tra scena e montaggio. “Hong Kong Express” è la fusione tra il dolore necessario del ricordo e l’emozione vitale della bellezza. Per certi versi, l’amore raccontato da Wong Kar-wai potrebbe apparire come “inappagato”, perché incompiuto e, quindi, insoddisfatto; è l’incontro in sé, però, a rappresentare il motore del cambiamento e il senso del tempo.