“Je me suis beaucoup expliqué en parlant des autres”. È così che Agnès Varda si è raccontata: raccontando gli altri. Ritraendo, come se realizzasse un dipinto, i loro volti e i loro sentimenti; servendosi del confronto costante tra cinema, fotografia e pittura. È questo modo di avvicinarsi agli altri, così intenso e viscerale, che ha dato forma al suo Cinema, facendo diventare illuminante, umano, personalissimo. La sua filmografia raccoglie questi esperimenti (impegnati a costruire un discorso teorico sull’Arte in tutte le sue declinazioni) fortemente caratterizzati: come quello di Cléo, e delle due ore che hanno cambiato la sua prospettiva di vita; di Jane B., per cui ha sovvertito le regole classiche del biopic, o dei murales di “Mur, Murs”, definiti come “sogni collettivi di una visione personale”.
In “Uncle Yanco” (1967, disponibile sulla piattaforma Mubi), Agnès si immerge nella sua storia familiare, riducendo – sempre di più – la distanza tra se stessa e il suo pubblico. Anzi, la caratteristica (o meglio, una tra le più evidenti) del suo modo di porsi dietro la macchina da presa consiste nel non concepire le sue opere come un qualcosa da “consegnare” solo agli spettatori. È Agnès stessa che si specchia (riferendosi, così, a tutti gli specchi presenti nelle sue pellicole, come ne “Les plages d’Agnès”) e che necessita di (ri)guardarsi. E i suoi film diventano, allora, un modo per creare memoria, come un album fotografico.
A chi non è capitato di rivedere un parente lontano, di cui non si conosce nulla, se non il nome o pochi altri dettagli superficiali? Qualcuno che abita lontano, o che sembra viva in un luogo distante perché – appunto – non si hanno ricordi che lo riconducano in uno spazio familiare. Agnès è emozionata pensando di incontrare suo zio. Sono poche – ma concrete – le cose che conosce di lui: è greco, vive in una casa galleggiante ed ha un legame fortissimo con il mare. È un pittore, un suo antenato, la sua “radice galleggiante”. “In questo album fotografico vi dedico questo momento in cui mettiamo in scena il nostro incontro tra zio e nipote”, ci dice Agnès. Come se stesse parlando ad un’altra famiglia, “immaginaria”, che in qualche modo la supporta e condivide il suo entusiasmo. Sarebbe riduttivo persino ritenerlo un Cinema partecipativo, perché è qualcosa di ancora più radicato. Lo zio Yanco sembra essere un’anima affine a quella di Agnès, come se avesse la stessa sensibilità, la stessa poesia. Mentre racconta di sé si trovano tracce anche della nipote; come quando chiarisce il valore della pittura, che “è come un’esplorazione, in cui scoprire se stessi, il cui obiettivo è che la luce penetri nella materia e la dematerializzi”. In questa idea di “redenzione della materia”, è come se si scorgesse anche Agnès, in sottofondo, che di quelle descrizioni si è servita in altri momenti, forse non con le stesse parole, ma con la stessa partecipazione. Il mare, ad esempio, li accomuna, senza che ne fossero a conoscenza. “Se aprissimo la gente, troveremmo dei paesaggi, se aprissimo me troveremmo delle spiagge”, dirà – ancora – ne “Les plages d’Agnès”.
Yanco e Agnès si (ri)trovano, scambiandosi a vicenda delle idee, parlando del passato, ripercorrendo la loro storia familiare. Ed è una scoperta sempre colorata, rivoluzionaria, creativa. Sono sempre (piccole) rivoluzioni quelle della regista di “Le bonheur”, capaci di fermare il tempo, di proteggersi dal vuoto, di ridare valore alle cose che perse o mai avute. Agnès Varda trattiene, costruendo – man mano – una sorta di archivio da preservare, per ricordare come si vive. E fa sognare, consentendo al pubblico di immaginare la propria personale – anche solo attinta dalla fantasia – “casetta per fuggire via dal rumore”.