Sulle note di “Where Do You Go to My Lovely” di Peter Sarstedt – colonna sonora di “Hotel Chevalier”, cortometraggio di Wes Anderson – si chiude la quinta serata del “Concorto Film Festival”. L’aderenza e la coerenza alla forma cinematografica del cortometraggio vengono condivise dal pubblico, dimostrando come il Festival stia riuscendo a sviluppare una cultura del Cinema breve.
Altri sei film proiettati durante la quinta serata, tra cui due che riprendono uno dei focus fuori concorso “Guilty Pleasures”; racconti legati all’erotismo e alla sessualità ma anche ai concetti più ampi di piacere, di corpi, di intimità. Ci si concentra, poi, sui temi di attualità, come le relazioni personali – analizzate in una chiave ironica e “alterata” – e il rapporto con l’ambiente; ma anche l’impatto della pandemia e le conseguenze umane e lavorative. A chiudere un corto che condensa il genere musicale e quello drammatico facendo una riflessione (sempre in forma anticonvenzionale) sul destino e sul valore delle cose non dette nel tempo “giusto”. Il Festival dimostra un’attenzione ad ogni aspetto del Cinema; i vari corti in gara – di cui sono stati proiettati più della metà – si concentrano su ogni aspetto della contemporaneità legandosi, però, anche alla musica, al teatro, alla danza. Sempre in forma “breve”, con una concentrazione maggiore di emozione, riflessione e approfondimento.
Presentiamo i sei film della quinta serata del Festival.
1: “FURTHER AND FURTHER AWAY”, DI POLEN LY: PERCHÉ TORNARE NEI LUOGHI DEL DOLORE?
(Cambogia, 22’)
Due fratelli trascorrono un ultimo giorno nel loro villaggio rurale in Cambogia prima di trasferirsi alla ricerca di condizioni migliori di vita. Bunong chiede a suo fratello di visitare la tomba dei genitori prima di andare via, ma lui si rifiuta, spiegandole che non ci sono né motivi né necessità per andarci. Lei capisce il suo bisogno di “negare il dolore” e decide di compiere un percorso autonomo, soffermandosi su quella sofferenza, prima di lasciare il villaggio. “Sono morti entrambi, solo soli e si fanno forza a vicenda”, dice. Il pensiero di allontanarsi dal luogo in cui sono sepolti la fa sentire “in colpa”, come se li stesse abbandonando. I due fratelli mostrano un approccio diverso al lutto; si nota sin dai primi momenti in cui mostrano una diversa attenzione alle cose (come la pulizia dei fiori) e un differente livello di vulnerabilità. Lei racconta i suoi sogni, cerca nei suoi ricordi, si impegna nel rendere omaggio ai suoi genitori. Sente il bisogno di avvicinarsi ancora di più a loro, “andando in alto”, arrampicandosi su un albero da cui spera di poterli sentire più vicini. Lui non vuole far riafforare altre memorie, preferirebbe – anzi – rimuoverle. Ci sono “viaggi” che vanno compiuti autonomamente; ci sono tempi e modi di reagire diversi. E ci sono approcci al dolore che, proprio per la loro diversità, possono risultare incomprensibili per alcuni. Ognuno fa riferimento alle proprie risorse e alle proprie capacità.
2: “BEWARE OF TRAINS”, DI EMMA CALDER: PERVERSIONI INCONFESSABILI E SOGNI IRREALIZZABILI
(Regno Unito, 13’)
Colori accesi, sui toni del rosso: sin dai primi istanti si viene pervasi da una violenza “voluta”, quasi desiderata. Una donna ne parla con la sua psicologa (o immagina di farlo): è in ansia – in un’accezione che si riferisce più all’adrenalina che al timore – per aver sognato di aver ucciso un uomo. Poi ci sono altre “presenze” che incombono su di lei: uno sconosciuto su un treno che l’ha “toccata”, suo padre che è in punto di morte, la preoccupazione per l’incolumità di sua figlia. Le perversioni si fondono con i sogni creando un universo di eccessi in cui il punto di arrivo e quello di fine coincidono e sono rappresentati dalla violenza. Quasi come se si rincorresse, si desiderasse. Non si sa se si tratti di una conseguenza di circostanze negative che hanno cambiato il punto di vista “deviandolo” verso atteggiamenti aggressivi, o se – invece – tutto sia la manifestazione di perversioni a lungo tenute a tacere. Quei sogni sembrano reali, si arriva persino a sperare che lo siano. “Forse è successo tutto in un’altra vita”, dice la donna. Come se ci fosse una “speranza” di concretezza, un fondo di verità. Lo spettatore viene ammaliato da quell’eccesso di “rosso”, da quelle situazioni (immaginate/desiderate) avvenute nel treno, da quel gusto macabro che – in qualche modo – persuade ed affascina. La particolarità sta, poi, nel fatto di riuscire ad infondere questo senso di “crudeltà” attraverso un’animazione; sfruttando l’alternanza dei colori e la forma distorta dei corpi si “colpisce” in modo più violento ed incisivo. Ci si rende conto, allora, che non è necessario che si tratti di un sogno o di un qualcosa di reale; le perversioni – in quanto tali – si manifestano come “desideri” ed è coerente con la loro natura che rimangano in una dimensione onirica. Il problema ste nel metterle in atto: si desidera così tanto che vengano sperimentate al punto da credere che si siano verificate, o si concretizzano realmente?
3: “TSUTSUÉ”, DI AMARTEI ARMAR: INDAGINE SULLA RESPONSABILITÀ
(Francia, Ghana, 16’)
I figli di un pescatore in un piccolo villaggio ghanese non riescono a rassegnarsi alla perdita del fratello maggiore, annegato durante una battuta di pesca. Uno dei due, addirittura, si persuade che sia ancora “lì”, in mare, e che possa ancora essere salvato. “Siete tutti responsabili”, dice Okai, ponendo lo spettatore di fronte alle proprie “colpe”. Siamo tutti responsabili dell’inquinamento, ad esempio. I due fratelli restano soli, senza sapere se verranno aiutati. La rassegnazione è più forte della paura di affrontare quello stesso pericolo che ha fatto scomparire il fratello; non c’è timore né esitazione nel tentativo disperato di recuperarlo. Il corto riflette sull’idea di responsabilità a partire dallo specifico caso fino ad ampliarsi a prospettive più grandi.
4: “AMOK”, DI BALÁZS TURAI: COSCIENZE CHE “COMBATTONO”
(Ungheria, Romania, 15’)
Clyde affronta il suo demone inferiore. Non sapeva della sua esistenza fino a quando non l’ha “conosciuto”; da quando ha scoperto della sua esistenza, però, ha realizzato che è sempre stato lì, accanto a lui. Deve acquisire forza e vigore per affrontarlo, ma il combattimento non può assumere la forma canonica di “duello” contro un avversario, perché si combatte contro “se stessi”, o – quantomeno – contro una parte di se stessi. Più che un combattimento, allora, dovrebbe essere un confronto/scontro. Il corto si serve di un oggetto di fantasia per riflettere sulle relazioni, sull’interiorità da ricostruire, sulle sembianze che si “riconoscono” una volta che il “combattimento” termina.
5: “LATE BLOOMING IN A LONELY SUMMER DAY”, DI SEIN LYAN TUN: L’IMPATTO DELLA PANDEMIA SUL LAVORO E L’ANALISI DEL “PIACERE”
(Birmania, 20’)
Durante la seconda ondata di COVID-19 a Yangon una donna ha perso il lavoro. Ha provato ad insistere per rimanere, ma le è stato risposto che “non sarebbe stato decoroso” e che “sarebbe stato più opportuno tenere solo i ragazzi”. Le si presenta un’occasione: conoscere un ragazzo che le piace. Lo spettatore avverte, in modo tangibile, il desiderio di una donna che vuole scoprire il suo corpo e analizzare il suo piacere. È emozionata dall’arrivo dell’uomo che le interessa, ma è, in realtà, più incline a conoscere se stessa, a sentirsi appagata. Il corto riflette sull’erotismo in una società in cui viene definita una mancanza di “decoro” che una donna lavori, figuriamoci che esprima la propria sessualità. Ed è una condizione che, se anche volessimo negarla, contraddistingue tante altre società.
6: “BYE BYE”, DI AMÉLIE BONNIN: L’AMORE HA UNA MEMORIA CHE PUÒ PREVARICARE ANCHE IL DESTINO?
(Francia, 25’)
Julien è uno scrittore che, per costruirsi un futuro migliore, ha lasciato la Normandia per trasferirsi a Parigi. Ha lasciato i suoi genitori (un po’ apprensivi, che ancora lo trattano come se fosse un bambino) e i suoi affetti. Quando ritorna a casa, però, è costretto ad affrontare i suoi ricordi ed il suo passato. Rincontra una donna, quella che ha desiderato per tempo e a cui ha dedicato i suoi libri, ma che non ha avuto il “coraggio di amare”. Lei lo ricambia, o meglio lo avrebbe ricambiato se lui avesse palesato il suo interesse. I due si confrontano ripetendosi di essere stati sfortunati a non aver “colto” nei tempi giusti la loro occasione per stare insieme. Si può dire che si tratti realmente di sfortuna? I punti di vista sul destino possono contrastarsi facilmente; c’è chi ritiene, infatti, che le cose non dipendano dalla volontà umana, che siano unicamente stabilite dal fato. C’è chi pensa, al contrario, che siamo noi a costruire la realtà, agendo e “sconvolgendo” gli eventuali piani già tracciati. È innegabile, però, che esistano delle “congiunzioni” – come degli incastri – che consentono di trovarsi in un determinato posto con una determinata persona. Se Julien non fosse partito probabilmente non avrebbe ugualmente vissuto la sua storia, o se anche fosse riuscito a viverla, non lo avrebbe reso felice come immaginava. Vengono messi in discussioni “grandi temi”: il destino, le aspettative che riponiamo su noi stessi e sugli altri, la determinazione nell’ottenere quello che si vuole. Più che fornire soluzioni (che sarebbero comunque non condivisibili da tutti e contrarie al significato che assumono questi “grandi temi”), il corto – a metà tra il musical e il dramma – indaga le relazioni sentimentali, soffermandosi sull’idea di “memoria”. L’amore (nella sua visione più ampia possibile) possiede la capacità di aspettare, ma soprattutto, quella di ricordare?