Schrader spiega così la genesi di “Taxi Driver”: “Il mio matrimonio era fallito. Così cominciai a vagabondare di notte; non potevo dormire a causa del profondo stato di depressione in cui mi trovavo. Restavo a letto fino alle quattro o alle cinque del pomeriggio, poi mi alzavo, bevevo e poi mettevo la bottiglia in tasca e cominciavo i miei giri notturni in auto. […] Rientravo all’alba. L’ho fatto per tre o quattro settimane di fila: una sindrome alquanto deleteria. Mi “salvò” un’ulcera: non avevo mai mangiato, solo bevuto. Quando uscì dall’ospedale mi resi conto che dovevo cambiare vita perché così sarei morto: decisi di lasciare Los Angeles. Fu allora che la metafora mi condusse a “Taxi Driver”, capii che era la metafora che avevo cercato, cioè l’uomo che porta chiunque ovunque per denaro, l’uomo che si muove in città come un topo in una fogna, l’uomo che è costantemente circondato dalla gente e tuttavia non ha amici. Il simbolo assoluto della solitudine urbana. Era ciò che avevo vissuto, era il mio simbolo, la mia metafora”. Era caduto nell’“abisso” anche lui, insieme a Travis Bickle. Cercava disperatamente di sentirsi vivo, di trovare uno scopo, (persino) di identificare un colpevole per quella condizione di destabilizzante apatia. Allora, forse, “Taxi Driver” è – prima di ogni altra cosa – il tentativo di redenzione di Schrader stesso.
Il dramma di Travis Bickle è lo stesso degli “eroi esistenzialisti”, quello che riporta a “La nausea” di Sartre o a “Pickpocket” di Bresson (Schrader ha indicato elementi tipicamente bressoniani del film come l’attenzione al dettaglio, la quotidianità, le piccole cose della vita di ogni giorno); un “problema” che parte dal domandarsi “semplicemente” perché esistiamo. Più che focalizzarlo verso “l’interno”, però, Bickle lo sposta altrove, verso l’esterno, come se cercasse spiegazioni sulla sua identità da altri. Come, addirittura, che se si aspettasse da altri la costruzione della propria personalità. Ed è per questo che, di volta in volta, cerca – proprio come Schrader – un colpevole; cioè un bersaglio che, una volta individuato ed eliminato, riporterà la situazione ad uno stato di “equilibrio” e – persino – di serenità.
Lo spettatore vive nella mente di Travis e accetta la sua realtà; comprende, cioè, la sua necessità di trasformare la sua perenne neutralità in un “attivismo risolutore”. Avverte, cioè, il bisogno di modificare quella realtà prima confusa (il primo sintomo è un’implacabile insonnia, come quella di Christian Bale ne “L’uomo senza sonno”), poi ripetitiva (il film si chiama “Taxi Driver” per lo stesso motivo per cui “Pickpocket” si chiama “Pickpocket”, senza “un” o “il”, come a voler sottolineare il carattere “anonimo” della vicenda), poi vendicativa. “Taxi Driver”, che sancisce il binomio artistico Scorsese-De Niro e si presenta come uno dei manifesti della cinematografia anni Settanta, è una ricostruzione alterata e claustrofobica di una solitudine violenta, di un’ostinazione a portare giustizia o, meglio, a plasmare una nuova idea di giustizia. C’è redenzione per Travis? Fare del bene affinché qualcuno – ma non se stesso – possa essere felice è un modo per redimersi, per evolvere?