MANHATTAN, DI WOODY ALLEN: IL MITO DI UNA CITTÀ E LA VISIONE DEL MONDO (E DEL CINEMA)

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Come per Fellini Rimini è stata “una dimensione della memoria”, per Woody Allen Manhattan è l’espressione ideale dei suoi valori. Una città romantica, pericolosa e misteriosa: tre aggettivi che identificano Allen stesso. 

Manhattan di giorno è un’esplosione di suoni e colori: grattacieli, insegne luminose, traffico che scorre, gente che va e che viene, operai al lavoro, il ponte, il porto. Manhattan di notte è, invece, un’esplosione di fuochi d’artificio per la Festa dell’Indipendenza del 4 luglio, al suono di “Rhapsody in Blue” di George Gerwish. La voce fuori campo di Woody Allen propone commenti diversi sulla città come a ripetere un possibile inizio per il primo capitolo di un romanzo. 

In un ristorante quattro amici stanno parlando della vita e dell’arte. Sono Isaac Davis “Ike”, la sua giovanissima fidanzata Tracy, il suo amico e docente universitario Yale Pollack e la moglie Emily. In disparte, Yale confessa ad Ike che si è innamorato di un’altra donna, una giornalista grintosa di nome Mary ed Ike si stupisce perché sicuro della felicità del matrimonio dell’amico. Ad un vernissage, Ike e Tracy incontrano Yale e Mary; Ike entra subito in polemica con Mary sui suoi gusti artistici, ricavandone una pessima prima impressione. Al loro successivo incontro però, finiscono per chiacchierare tutta la notte su una panchina sotto il ponte di Queensborough (59esima strada), aspettando l’alba. Ike si scopre attratto da Mary, quasi come se lei rappresentasse una parte di sé ancora inesplorata. 

“Manhattan” è il frutto maturo della comicità verbale e letteraria – e insieme del rigore espressivo, già rivelato in “Interiors” – di Woody Allen: è un’opera intima, riflessiva e assolutamente autoironica. Una sintesi di ironia e tragicità, un’opera contraddittoria ma assolutamente coerente. Da una parte le citazioni letterarie, i musei, gli artisti all’avanguardia e dall’altra l’apatia, la vacuità intellettuale, l’immaturità di un uomo che si rifugia in una relazione con una “lolita” perché non conosce ancora se stesso. Da una parte le luci e dall’altra le ombre. “Manhattan” consacra la nascita dell’“eroe alleniano” e rappresenta a pieno le due anime di Allen: una leggera e sarcastica, l’altra malinconica e rivolta al ragionamento. È senza dubbio “il film” di Woody Allen. È una critica alla borghesia, è un racconto morale (nell’accezione di Éric Rohmer), è una riflessione sulle relazioni. La città non fa semplicemente da sfondo, ma ha un vero e proprio ruolo e sembra interagire attivamente con i protagonisti. Ogni inquadratura è un capolavoro di composizione dell’immagine e dell’uso dei contrasti di luci e ombre che solo il bianco e nero può creare, al punto che sarebbe impossibile immaginare il film a colori.

Allen si mette a nudo, si auto-psicanalizza, registrando i propri pensieri e “le cose per cui vale la pena di vivere”. Gli incalzanti dialoghi e la caratterizzazione dei personaggi dipingono un ritratto dei rapporti umani e della profonda alienazione tipica delle grandi metropoli. Allen descrive la “frivolezza” appellandosi alla sua delicata e pungente ironia che da sempre lo contraddistingue: è proprio l’apatia dei sentimenti uno degli aspetti fondamentali di “Manhattan”. Woody Allen, però, nelle emozioni ci crede e, di conseguenza, anche lo spettatore viene incoraggiato a mettersi a nudo e a prendere carta e penna per riflettere su quali sono le cose per cui vale la pena di vivere. 

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