New York, anni Novanta. Stanfield è un poliziotto spietato e perverso che fa uccidere un’intera famiglia immischiata in traffici di droga. Si salva solo Mathilda (una giovanissima Natalie Portman alla sua prima esperienza recitativa), una ragazzina di dodici anni. L’incontro-scontro con Léon, suo vicino di casa, è fatale. Lui è un immigrato italiano di età, luogo ed origine non precisati, senza un passato, ma soprattutto, senza un futuro. Ogni giorno, dopo aver “fatto le pulizie” – come lui definisce il suo lavoro da killer – torna nella sua abitazione spoglia e incolore, chiude tutte le finestre e, bevendo un bicchiere di latte freddo (sua unica fonte di nutrimento), comincia il suo abituale rito di cura amorevole di una piantina, suo unico legame. La ama proprio perché è esattamente come lui: senza radici. Ma come può una ragazzina di dodici anni condividere qualcosa con un sicario?
Mathilda associa la figura di Léon al suo “eroe personale”, e per questo inizia a prendere le sue sembianze, le sue abitudini, fino all’immedesimazione totale: vuole essere come lui, fare tutto ciò che fa lui. È il suo modello. Allo stesso tempo Léon si lascia coinvolgere da Mathilda, le insegna tutte le regole del suo “mestiere”, viene praticamente adottata da lui. La tristezza per la perdita della sua famiglia lascia il posto ad un sentimento nuovo: l’amore. Mathilda inizia ad essere sempre più affascinata da quest’uomo che vede come il suo salvatore. Tra di loro nasce un amore che potrebbe a primo impatto scandalizzare (del film esistono, infatti, tre versioni differenti, e quella integrale è di 136 minuti): quello di una bambina per un uomo adulto, l’amore per un sicario che uccide a sangue freddo per soldi. Ma quello di Mathilda e Léon è un Amore purissimo, platonico, basato sulla fragilità di una bambina che fuma di nascosto sulle scale e quella di un altro “bambino”, un uomo che dismessa la maschera del killer diventa una creatura buona (capace anche di emozionarsi quando va al cinema da solo), e che mantiene quell’ingenuità che solo i bambini hanno. Besson ci regala un film più che riuscito per perfezione di immagini, ma anche per delle fotografie incancellabili di quegli sguardi impenetrabili di Léon e innocenti di Matilda. Da ricordare assolutamente anche l’interpretazione di Gary Oldman, che dà corpo, voce ed essenza ad un personaggio delirante e alienato.
“Léon” è in grado di mantenere un perfetto equilibrio fra la convenzionalità di un film gangster e di corruzione e quello ancora più scandaloso e pericoloso della storia d’amore – seppur platonica – fra una bambina e un quarantenne. Crudeltà e tenerezza si fondono alla perfezione. Tra brutalità e violenza, i personaggi riescono a non perdere la loro dimensione umana. L’ennesima dimostrazione che gli effetti speciali non sono essenziali per produrre un buon film. In “Léon” c’è tutto: umanità, fragilità, compassione, amore, crudeltà, odio, vita e morte.