TWIN PEAKS, DI DAVID LYNCH: PERDERSI È MERAVIGLIOSO

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Per comprendere la vita, il cinema e l’arte di David Lynch dobbiamo accettare di precipitare in una voragine; solo così, possiamo esplorare il suo “paese delle meraviglie” – popolato da nani, giganti e corpi senza vita di reginette del ballo – in cui la percezione, alterata ma mai falsificata, è proiettata al di là del visibile. Uno spazio di sogno dove il banale può mostrare la sua intima ironia, la verità del desiderio può ribellarsi con forza prorompente e dove lo sguardo, rompendo il reale, riesce ad affacciarsi sullo spazio tra un pensiero e il successivo, il mistero che non ci è dato conoscere. 

“Twin Peaks”, il cui sinistro mantra è “Fuoco cammina con me” (diventato poi il prequel della serie), trasforma tutti noi in detective, ma ci chiede di seguire l’esempio dell’agente speciale Dale Cooper, e di fare affidamento non solo sulla razionalità, ma anche sui nostri poteri spirituali e sulle nostre facoltà intuitive per riuscire a “percepire” un senso logico. I luoghi hanno una forte personalità – elemento tipico dell’opera di Lynch – e gli eventi sono narrati dal punto di vista della cittadina: quello che si accade è una diretta emanazione delle forze misteriose che abitano quel particolare paesaggio. Quelle forze rappresentano la cittadina e la cittadina è la vera protagonista dello spettacolo. 

Probabilmente, “Twin Peaks” è stato il lavoro che ha permesso a Lynch di rendere tutto “più pubblico”, nonostante fu uno shock all’epoca apprendere che fosse impegnato in una soap opera per la televisione americana. Soprattutto perché, Lynch ha sempre avuto le idee chiare a proposito delle ripercussioni negative che l’uso del mezzo televisivo ha sul suo lavoro. E sono legate principalmente alla difficoltà di parlare direttamente ad un pubblico attraverso un mezzo dominato da distruttori di sogni (gli spot pubblicitari o i palinsesti “invadenti”). Televisione significa dire brutte immagini, brutta qualità del suono e interruzioni pubblicitarie. Una sofferenza continua. Ma, in realtà, è proprio la lunghezza della storia che prosegue per molti episodi che esercita “quel” fascino. È elettrizzante non sapere dove ti sta portando una storia. È elettrizzante osservare che direzione prende e scoprire la strada un po’ alla volta.

Il 9 gennaio 1991 andava in onda, per la prima volta sugli schermi italiani, “I segreti di Twin Peaks”, partorita dalle menti geniali di Mark Frost e David Lynch. La serie, che ha assillato milioni di spettatori con la domanda “chi ha ucciso Laura Palmer?”, ha spezzato quella convenzionalità rassicurante di una normale serie televisiva. Dietro la semplice – e apparentemente lineare – trama c’è tanto altro, ma tutto si può riassumere brevemente: viene ritrovato un cadavere avvolto in un sacco di cellophane. Il cadavere in questione è di Laura Palmer, una giovane liceale conosciuta da tutta la comunità. Viene chiamato, allora, l’agente Dale Cooper che inizia ad investigare coadiuvato dallo sceriffo Harry Truman. Da qui ci si inizia a muovere tra i migliori topos del genere (interrogatori, piste da seguire, probabili colpevoli, inseguimenti, depistaggi, colpi di genio), e un mondo fatto di sogni, illusioni e trascendente. La razionalità perde di valore e ci si muove tra realtà ed allucinazione. Ed è La Stanza Rossa (Loggia Nera) l’emblema di questo microcosmo parallelo. Rappresenta l’idea di un “non luogo” in cui non esiste alcun problema di tempo, e può accadere qualunque cosa. È una zona libera, totalmente imprevedibile e dunque piuttosto intrigante, ma anche terrorizzante. Un vero e proprio immaginario mitologico, intriso di riferimenti filosofici, metafisici e simbolici. Quanto c’è di vero? Lo spettatore viene attratto da una realtà filtrata che depista le intenzioni di chi la vive: è tutto astratto o è tutto concreto? In fondo, la trascendenza può portare a simulare la realtà. 

E, per quanto riguarda la paura? Lynch “costruisce” un personaggio capace di suscitare ogni sentimento di terrore ed angoscia: Bob. Quando c’è Bob in circolazione accade sempre qualcosa di strano: si percepisce un sentore, un’inquietudine, e si aprono spiragli all’irruzione del diverso. E compare sempre di notte, perché è di notte che ci si aspetta che succedano cose del genere. Di giorno, alla luce del sole, non si immagina che possano verificarsi. Come in “Shining”, quando il bambino sul triciclo gira l’angolo e si trova davanti le gemelle: lo spettatore sa che non dovrebbero essere lì.

Forse è meglio non preoccuparsi troppo dei significati o delle interpretazioni, altrimenti si rischia che la paura impedisca di andare avanti. Perchè è solo quando ci affidiamo all’intuito, all’inconscio – o comunque vogliamo chiamarlo – che è possibile lasciare che le cose affiorino e si sviluppino senza interruzioni.