Il plumbeo cielo di Berlino è popolato di angeli. Smarrite le identità e le funzioni originarie dopo l’esperienza lacerante del conflitto, invisibili agli occhi degli uomini ma non a quelli dei bambini, posano il proprio sguardo libero e inesausto, ma condannato al bianco e nero, sulla città e sui suoi abitanti, dei quali cercano di cogliere i pensieri, i ricordi, i sentimenti: l’emozione di un uomo che visita la casa della madre morta, le ansie di una partoriente, la lite di una coppia. Due angeli, Damiel e Cassiel, si incontrano spesso per riferirsi i frammenti delle storie individuali che hanno trattenuto nel corso del loro incessante vagabondare. Damiel confessa l’insofferenza nei confronti della propria “eternità” e il desiderio di sperimentare la concretezza della vita: sentire finalmente il peso del proprio corpo, dare da mangiare al gatto, sporcarsi le dita leggendo un giornale, gustare un buon pranzo. Questo desiderio si acuisce quando vede Marion, la giovane e bella trapezista, di cui ammira la bravura ma intuisce l’intima inquietudine. La segue, la osserva e prova timidamente a toccarla: per un attimo, e per la prima volta, la realtà rivela al suo sguardo i colori. Damiel ha deciso: diventerà mortale. “Caduto” sulla terra, vicino al muro tante volte “attraversato”, scopre subito la vita: impara a distinguere i colori, sorseggia una tazza di caffè, acquista degli abiti nuovi. Poi corre a cercare Marion, ma il circo ha chiuso i battenti, lasciandola in preda alla solitudine. Va allora nel locale del rock di Nick Cave and The Bad Seeds, poi in un bar, dove finalmente Marion lo raggiunge.
Prima di ogni cosa, “Il cielo sopra Berlino” è un lucidissimo atto d’amore nei confronti di una città offesa dalla Storia, una città dove la guerra non è mai finita e il futuro è un’ipotesi obbligata a confrontarsi con le cicatrici ancora visibili nell’architettura e nei muri dei suoi quartieri; una città condannata ad un presente solo apparente, dietro il quale si celano, pronte a rivivere in qualsiasi momento, le immagini di distruzione e di morte del secondo conflitto mondiale (le prime del cinema di Wenders). Solo in questa città lo sguardo libero dell’angelo – che coincide con quello della macchina da presa, mobilissima e instancabile nel tracciare sinuosi ed avvolgenti movimenti aerei – può rinunciare all’estraneità per piegarsi alla necessità di compromettersi con la materialità del reale. Autentico protagonista del film, lo sguardo dell’angelo realizza il sogno del narratore: attraversare impalpabilmente i muri e le finestre per “entrare” nelle vicende della gente. L’angelo può accostarsi senza essere visto, per strada o in una metro, ad un passante qualsiasi per elevarlo per un momento ad eroe di una storia possibile. Allo stesso tempo, però, questo sguardo segna il distacco e l’impotenza di chi può vedere tutto ma non riesce a catturare che la forma, l’essenza immateriale, come Cassiel che, provato a sollevare un oggetto, stringe in mano solo la sua apparenza. Partecipe del dolore e della solitudine di tutti gli uomini, capace di raccogliere ovunque un immenso ma effimero repertorio di frammenti individuali destinati all’incompiutezza, l’angelo non riesce tuttavia a salvare il singolo che ha scelto di morire (l’impotenza di Cassel di fronte al suicida del grattacielo). In questa incapacità c’è il limite: nessuna salvezza è possibile – sembra voler dire Wenders, a se stesso prima che agli altri – nella separazione dalla vita. Per potersi “conquistare una storia” occorre, dunque, rinunciare all’eternità, a quell’ “assenza” che consente di cogliere gli uomini e le cose solo come ombre che si muovono su uno schermo (cinematografico?), e riscoprire il senso più intimo dei piccoli gesti del quotidiano.
Damiel diviene, pertanto, la metafora di un’ideale condizione di saggezza che non rinuncia allo stupore infantile, la lucida espressione della consapevolezza che per cambiare la realtà occorre ancora credere nelle favole, o, meglio, guardare alla realtà come a una favola. E qual è la favola più grande, affascinante e coinvolgente se non quella dell’amore? La stessa che costringe Damiel ad innamorarsi (a “cadere innamorato”, come indica l’equivalente espressione francese “tomber amoureux” o quella inglese “to fall in love”) per poter, di conseguenza, “cadere” sulla terra?
“Il cielo sopra Berlino” – scandito dalla meravigliosa filastrocca – poesia “Elogio dell’infanzia”, scritta dal premio Nobel Peter Handke, amico del regista e sceneggiatore (in parte) del film – è un viaggio interiore più che spaziale, che spinge a riflettere sul senso del tempo, sull’amore che è apertura verso l’Altro (in opposizione alla chiusura del muro): Wenders dirige una poesia senza retorica, un’opera che ha bisogno del “bianco e nero” per arrivare ai “colori”. Da guardare con lo sguardo di un bambino.
Chi non ha bisogno di un angelo custode?