“Pierrot le fou”, girato nell’estate del 1965 così rapidamente da consentire la presentazione alla mostra di Venezia nell’agosto dello stesso anno, è senz’altro uno dei più ricchi, sfaccettati, variegati film di Godard. Si potrebbe proporre la definizione di “film-caleidoscopio”, che individua sia la vivacità cromatica delle sue immagini, sia la sua struttura fatta di instabili equilibri tra elementi eterogenei, di un continuo accavallarsi e rispecchiarsi di una serie di frammenti di base. In “Pierrot le fou” – che in Italia uscì con l’infelice titolo di “Il bandito delle 11” – ci sono tutte le componenti del romanticismo di Godard: dalla connessione tra Amore e Morte al tema della fuga verso la purezza (come in “Alphaville”) a quello del tradimento, alla risoluzione finale nella contemplazione dell’armonia (l’ultima inquadratura è analoga a quella de “Il disprezzo”).
Il film si apre con una lunga citazione da un volume di storia dell’arte che parla di Velasquez, e che Godard ha così commentato: “È il soggetto del film, la sua definizione. Velasquez alla fine della sua vita non dipingeva più le cose definite ma quello che c’è “tra” le cose”. È Ferdinand che legge il libro, sigaretta in bocca, adagiato nella vasca da bagno. Lavora genericamente per la televisione, ma soprattutto ha sposato una donna molto ricca e non ha preoccupazioni. La moglie lo porta a ricevimenti borghesi, durante i quali lui si annoia e lei lo tradisce. Così Ferdinand, ritrovata casualmente un’amica che lo chiama Pierrot come quando si erano conosciuti anni prima, passa con lei la notte. Marianne vive in una casa in mezzo ad armi e cadaveri di uomini assassinati, assieme ad una banda a metà strada tra la politica e il gangsterismo. Pierrot-Ferdinand la aiuta a liberarsene. I due fuggono insieme verso il sud, lontano dalle rispettive vite. Dopo qualche folle avventura si stabiliscono in Provenza, in riva al mare, e vivono isolati dal resto del mondo: leggono libri e giornali e Ferdinand comincia anche a scrivere un diario. Una danza pazza nei boschi conclude questo periodo spensierato. Marianne viene ritrovata dai membri della banda, riesce a fuggire ma Ferdinand viene catturato. Una volta liberatosi si ritrovano ancora una volta: Marianne lo coinvolge nel giro di strani personaggi che le ruotano attorno sotto la guida di Fred, che lei chiama “suo fratello” ma che in realtà è il suo amante. Dopo una nuova danza e un breve momento di felicità, Marianne decide di abbandonare Ferdinand e di fuggire con Fred. Pierrot li raggiunge nell’isola dove si sono rifugiati e li insegue sparando. Fred muore subito, Marianne poco dopo, pentita del suo tradimento. Ferdinand allora si prepara ad una morte teatrale: si colora la faccia con una vernice blu, si lega attorno al capo dei tubi gialli e rossi di dinamite e, in cima ad una collina, dà fuoco alla miccia. Forse ha un istante di ripensamento, vorrebbe tornare indietro, ma la carica esplode. Una voce fuori campo legge dei versi di Rimbaud.
Per pochi film come per questo, la semplice descrizione della “trama” è insufficiente a cogliere la reale complessità del tutto. Forse, più che la sequenza ultima, è la primissima a rappresentare emblematicamente il film: i titoli di testa di “Pierrot le fou” appaiono lettera per lettera, in ordine alfabetico (prima tutte le A, poi tutte le B, ecc.) fino a comporre la didascalia iniziale con titolo e attori. Il linguaggio è scomposto nelle sue unità elementari, e il senso non è il risultato di un processo lineare e logicamente conseguente, ma il provvisorio e casuale accumularsi di significati dispersi. Questo gioco sul corpo della lettera è ripetuto spesso nel film (e ritornerà frequentemente nei successivi film di Godard): la cinepresa isola frammenti di parole trovate casualmente, producendo altre parole. Da una scritta al neon “riviera” esce la parola “vie”; il nome di Marianne può diventare, anagrammando, “mer”, “ame”, “arme”, ecc. Questo comporsi e ricomporsi della parola e del senso si ripete, a livello di unità maggiori, in tutta la struttura del film. E molte delle componenti che vengono isolate sono, naturalmente, quelle solite di Godard: il cinema, la pittura (“Pierrot le fou” è il film che segna l’arrivo della pittura sullo schermo e nel film sono presenti riferimenti espliciti a Picasso, Modigliani, Renoir), la letteratura (ci sono rimandi a García Lorca, Conrad, Faulkner). Il colore, poi, è la grande conquista di “Pierrot le fou”: i personaggi cambiano continuamente d’abito per alternare i rapporti e persino la morte è fatta di colori.
Dunque, “Pierrot le fou” potrebbe sembrare un film intriso di intellettualismi, ma, in realtà, pochi film appaiono più liberi da un passato culturale pur senza fingere di dimenticarlo come questo. “Pierrot le fou” è Godard al 100%. Un cinema che distrugge, inventa, travolge e rivoluziona.
“Che cos’è il cinema?”
“Il cinema è come una battaglia: amore, odio, azione, violenza, morte. In una parola: emozione”