Il signor Trelkowsky (Roman Polański), impiegato borghese di origine polacca, visita un vecchio appartamento in un antico palazzo parigino. Si viene a sapere che la precedente inquilina si è gettata dalla finestra proprio lì, e adesso giace in coma all’ospedale. La malcapitata muore. Trelkowsky si stabilisce nell’appartamento, ma ben presto si accorge che nessuno, né il proprietario che abita al piano di sotto, la portiera o gli altri inquilini, vogliono essere gentili o affabili con lui. Altre stranezze: ficcato in un buco del muro c’è un dente, mentre alle finestre di fronte alcuni individui lo fissano per lungo tempo. Man mano che si infittisce la relazione con Stella – un’amica della vecchia inquilina – si infittiscono anche le scortesie degli abitanti del palazzo. Trelkowsky comincia a soffrire di allucinazioni e inaugura, per giunta, una singolare mania: scopre una singolare attrattiva per l’oggettistica femminile, lo smalto per le unghie, le parrucche, i tacchi alti. E finisce col compiacersi di simili travestimenti. La paranoia cresce sino al punto in cui Trelkowsky si crede vittima di un complotto da parte degli abitanti dello stabile. L’identificazione con l’inquilina precedente si fa totale quando si persuade che esista una precisa volontà – un complotto ben studiato – per cui deve prenderne il posto fino alle estreme conseguenze. E così obbedisce, per due volte di seguito.
Il dramma di Polański oscilla tra una situazione di minaccia oggettivamente subita dal protagonista e una piena e consapevole paranoia. L’esito è che finisce con il privilegiare la prima soluzione alla quale, però, applica reazioni come se subisse la seconda. Il paragone con “Rosemary’s Baby” parte automatico: in entrambe le opere di Polański si dipanano incubi personali scaturiti da un complotto. La differenza sostanziale riguarda la maternità che, in “Rosemary’s baby”, pur nello scintillio degli occhi del demonio, chiudeva definitivamente il cerchio; qui, piuttosto, c’è l’assunzione piena, consapevole è delirante della femminilità di cui Trelkowsky si carica per sentirsi, finalmente, parte di un contesto che lo colpevolizza e lo esclude. Se, però, la femminilità a cui fa riferimento Polański sembra accentuare l’ambiguità, ossia uno dei temi fondamentali del suo cinema, in realtà la dissolve: infatti, più che essere stato sempre “L’inquilino del terzo piano”, Trelkowsky sente piuttosto che non lo è mai stato per davvero, e deve, quindi, assumere la messa in scena, la teatralizzazione e il trucco perché ciò finalmente accada. Un po’ come veniva suggerito a Jack Torrance di “essere sempre stato il custode” del suo Overlook Hotel. Forse, però è più opportuno insistere su un’altra analogia: l’intreccio de “L’inquilino del terzo piano” è indubbiamente vicino alle atmosfere di Kafka. Trelkowsky scivola, pian piano, nella femminilità, non diversamente da Gregorio Samsa che, un bel mattino, si sveglia scoprendosi scarafaggio. Anche il realismo della messa in scena – specialmente per il grande e dettagliato arredamento dello stabile – somiglia al realismo kafkiano, ossia un incubo narrato attraverso uno stile semplice e diretto, quasi giornalistico.
È il cuore del cinema di Polański: un cinema che somiglia a una messa in scena, acuta e stratificata, e poi scivola nel documentario di una realtà rigida e bloccata. “Io tengo al realismo in tutto. Più racconto storie incredibili, più sento che è necessario renderle in modo realistico. Non amo i trucchi, le astuzie, le finezze pseudo intellettuali”, ha spiegato Polański. Gli incubi e le inquietudini sono i protagonisti delle sue pellicole. Per quanto, però, tenga a una rappresentazione fedele alla realtà, è necessario anche mettere in discussione tutte le certezze: “Se non siete certi di niente, non potrete mai affermare niente, per la paura che la sedia non sia più una sedia. Io non voglio che lo spettatore pensi in questo modo o in un altro, voglio solo che non sia sicuro di niente. Bisogna confondere, è questo il principio del dramma”. Ne “L’inquilino del terzo piano” non è solo l’uomo a perdere la propria identità, ma il corpo stesso del cinema: Polański si prende la libertà si oltrepassare la soglia della follia mettendo in scena il complotto perfetto contro lo spettatore. L’inquietudine e il dubbio sono sentimenti che la razionalità non potrà mai domare.