BUFFALO ‘66, DI VINCENT GALLO: UNA STORIA DOLOROSAMENTE AFFASCINANTE

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Billy Brown è appena uscito dal carcere, dopo averci passato cinque anni da innocente, a causa della perdita di una scommessa sulla squadra di football di Bufalo e dell’impossibilità di pagarla. Non riesce, però, a godere della ritrovata libertà perché ha un’unica ossessione: uccidere il giocatore che ha sbagliato il tiro decisivo nell’incontro cruciale e che considera responsabile della sconfitta dei Buffalo. Prima però, deve andare a fare visita ai suoi genitori, a cui ha raccontato di aver lavorato per il Governo Americano e di essersi anche sposato. Per rendere credibili le sue bugie, incontra e rapisce la ballerina Layla per presentarla ai genitori come se fosse sua moglie. Imprevedibilmente, la donna si comporta bene e si conquista l’affetto dei genitori; inizia ad assecondare le sue ossessioni da uomo disturbato – con smanie vendicative omicide e suicide – e lo accompagna nelle sue folli avventure. Quello che Layla gli sta offrendo aiuta Billy a cambiare prospettiva e a rivedere il suo comportamento autodistruttivo. 

Che cosa può fare l’amore?

Con una giusta dose di rabbia, ironia e realismo, “Buffalo ‘66” racconta una storia assurda, al limite del surreale, capace di mettere in scena la solitudine e il bisogno di approvazione. L’intento di Vincent Gallo è mostrare delle emozioni, al di là della logica e della coerenza: alcune scene, apparentemente “superflue”, assumono grande importanza. Più che un film diretto da Vincent Gallo, questo film è Vincent Gallo: “Buffalo ‘66” abbraccia un’idea di cinema decisamente non convenzionale, che immette lo spettatore in una realtà allucinata. Analizzando più a fondo, è evidente come la pellicola esprima, in realtà, una profonda naturalezza: Billy può essere inteso come un personaggio in cui immedesimarsi, una persona priva di punti di riferimento, incapace di riconoscere, accettare e – soprattutto – apprezzare l’affetto, un autolesionista che ha sempre creduto di non essere abbastanza. I genitori di Billy non hanno mai creduto in lui, né hanno mai davvero conosciuto il figlio, ignorando persino le sue intolleranze alimentari. L’esordio alla regia di Vincent Gallo (attore, regista, sceneggiatore, musicista, pittore) preferisce mettere a nudo i difetti: “Buffalo ‘66” è un’opera personale e malinconica, angosciante eppure così dolce. È come se il film l’avesse girato più per se stesso che per il pubblico: la sensazione di straniamento – voluta dal regista – è destabilizzante ma piacevole. Anche la musica viene utilizzata per dare un maggiore senso di spaesamento; un esempio è la scena in cui Layla accenna uno strano tip-tap sulle note di “Moonchild” dei King Crimson (la canzone è del 1969): il rock progressivo è un genere di musica che raramente si sente in un film americano. La musica spezza la coerenza e concorre a creare un’atmosfera alienante.

Ogni aspetto di Billy Brown viene messo a nudo: la sua personalità nel corso della narrazione assume diverse forme a causa del suo bipolarismo, e si presenta al tempo stesso paranoica, violenta, crudele, folle e persino tenera. Vincent Gallo porta sullo schermo la tenerezza e la volgarità, il folle e l’ordinario, senza preoccuparsi di essere frainteso. C’è l’evidente volontà di costruire il profilo psicologico di un personaggio (quello di Billy Brown, in primo luogo, ma anche quello degli altri personaggi secondari), andando oltre il suo aspetto fragile e tormentato e cercando di scavare più nel profondo, per scoprire le cause dei suoi atteggiamenti paranoici e irrazionali. Si avverte la sensazione di assistere ad un racconto libero, lontano dalle rigide esigenze narrative del cinema mainstream. Come è possibile che possa nascere un amore tra due persone che non si conoscono? O addirittura, che possa nascere un amore da un rapimento? Semplicemente accettando un’idea totalmente irrazionale ma al tempo stesso credibile: Layla non si ritiene una vittima, decide di restare accanto a Billy perché si rende conto della sua debolezza e del suo bisogno di accettazione. È come se – sempre restando nel surreale – si ritenesse più “forte” di Billy Brown (perché più capace di definire, esprimere e condividere i propri sentimenti) e quindi riuscisse per questo ad andare oltre il suo bisogno di distruggere se stesso e quello che lo circonda. Billy prova a difendersi anche da Layla, perché il suo modo spontaneo e totalmente disinteressato di mostrargli affetto e complicità gli fa paura, ma alla fine abbassa le difese e si lascia andare, accettando persino l’amore. È Layla che “She puts the sweetness in all around”.

“Buffalo ‘66” è un’opera dolorosamente affascinante: è una pellicola triste, “cattiva”, estremamente libera. Un’esperienza quasi sensoriale, fatta di inquadrature sbagliate, psicosi e sofferenze. Ci sono balletti, canzoni, sguardi e abbracci dolcissimi. Ci si arrabbia, si soffre e si viene invasi da una “tenera follia” che poteva degenerare in una totale disperazione, ma preferisce scegliere la redenzione. “Buffalo ‘66” è un’opera che spinge lo spettatore quasi ad odiare il mondo per l’eccessiva solitudine, ma poi trova il modo di amarlo: tra immagini “sporche”, dolore e incomunicabilità si sorride e si esce “vincitori”. Vincent Gallo aiuta Billy Brown – e ognuno di noi – ad abbandonare un’etichetta che incatena e che rende ancora prigionieri. Chi ha ancora il coraggio di credere nella forza redentrice dell’amore?