I SOLITI SOSPETTI, DI BRYAN SINGER: UNA MANIPOLAZIONE GENIALE

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“La beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è convincere il mondo che lui non esiste”, recita Kevin Spacey, citando Baudelaire. Chi è Keyser Söze? I primi spettatori si fecero questa domanda ventisei anni fa. Lo sceneggiatore McQuarrie spiegò in seguito che il nome Keyser Söze derivava da quello di un suo vecchio capo – un certo Kayser Sume – e che lo cambiò leggermente grazie a un dizionario di un coinquilino  turco, sul quale lesse che söze era una parola usata per riferirsi a qualcuno che “parla molto”. C’è chi credeva che dietro il nome di Keyser Söze non ci fosse nessuno, chi addirittura non pronunciava il suo nome, chi pensava invece che fosse uno psicopatico paragonabile ad un “diavolo”. Nessuno dei personaggi sapeva chi fosse, e sembra essere questo – ancora oggi – il suo più grande potere: l’anonimato. Söze, in realtà, non è frutto di alcuna invenzione, esiste e sa muovere le sue carte nel modo giusto, riuscendo anche a manipolare gli agenti della polizia, raccontando una storia inventata di sana pianta. Il machiavellico protagonista “insospettabile” con la camminata scomposta muove i fili dell’intera vicenda e inganna tutti: complici, polizia e spettatori. Impossibile, oggi, non conoscere la reale identità del misterioso Keyser Söze; eppure, “I soliti sospetti” non è uno di quei film che funziona solo alla prima visione se non si conosce nulla. Anzi, anche sapendo come si concluderà la vicenda, il film di Bryan Singer risulta diverso ad ogni visione: i dettagli e le ambiguità lo rendono un racconto ingannevole, da ricostruire ogni volta. E non è tutto: “I soliti sospetti” non si basa unicamente sulla scoperta dell’identità di Keyser Söze, ma su come il personaggio sia riuscito ad ingannare gli altri personaggi del film (e noi con loro). Ad una prima visione – priva di ogni malizia – non è possibile mettere insieme i pezzi. Si arriva a domandarsi se il piano elaborato sia perfetto o “zoppicante”, come lo stratega che l’ha messo in atto: i nostri “soliti sospetti” sembrano ogni volta diversi, come gli stessi personaggi. 

Cinque uomini dalla fedina penale sporca vengono prelevati e interrogati per il sospetto che (almeno) uno di loro sia coinvolto nel furto di un carico di fucili. Nessuna prova certa viene loro imputata e, dopo alcune ore, vengono rilasciati. Durante la loro permanenza, però, riescono ad ordire un piano che dovrebbe procurare un grosso guadagno. Il mistero si infittisce con l’entrata in scena del personaggio di Keyser Söze, potente genio del crimine che nessuno ha mai visto. Una serie di enigmi a cui non è semplice dare una spiegazione chiara, una suspense crescente e un sottile umorismo: “I soliti sospetti” è un thriller che incuriosisce e appassiona. La sceneggiatura di McQuarrie – che ricevette il premio Oscar – è studiata per esplodere negli ultimi minuti che sconvolgono sia gli altri protagonisti che il pubblico.  

Quello organizzato da Kevin Spacey è un gioco di prestigio. In un mondo in cui niente è quel che sembra, bisogna saper guardare oltre. “I soliti sospetti” sembra svelare tutto e il contrario di tutto, raccontando di poliziotti corrotti, di criminali valorosi e di amicizie nate nelle condizioni meno probabili. Un crime drama sempre attuale, che merita di essere visto e rivisto. “Sei un gran disordinato”, dice l’agente Kujan al suo superiore. “Sì, ma è un disordine sistematico. Non ci capisci niente a guardarlo così, devi guardarlo da una certa distanza” risponde l’altro. Con questo dialogo apparentemente banale viene svelata la verità: basta un dettaglio, un cambio di prospettiva, e l’enigma si scioglie. Il misterioso Keyser Söze è il Diavolo in persona. Come Kujan, anche noi siamo ammaliati dalla sua lingua, dall’incedere ritmato del suo racconto: Keyser Söze è il perfetto narratore e ne resteremo sempre affascinati. “I soliti sospetti” è un omaggio alla figura del narratore, capace di usare l’astuzia per dare vita a racconti di finzione, ma improvvisando sfruttando anche le reazioni dei suoi ascoltatori. 

A trionfare è l’intelletto e, in modo paradossale ma coerente, la menzogna. Il vincitore – del suo primo premio Oscar e di tutta la messa in scena – è solo e soltanto Kevin Spacey. Considerando il risultato, è facile accettare di essere presi in giro così, altre mille volte.