“Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia”: così inizia il romanzo di Vladimir Nabokov del 1955. La sua “Lolita” nacque da “un piccolo palpito” che “mi percorse alla fine del 1939 o all’inizio del 1940, a Parigi, in un periodo in cui ero costretto a letto”; d’allora quell’idea ha continuato a perseguitarlo per anni. Un vero e proprio tormento. Nonostante sia stato considerato un romanzo pornogtafico, immorale e volgare, “Lolita” è diventato un best-seller. Il nome stesso (“la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti”) è entrato nel gergo comune indicando una “ninfetta” diabolica e seducente. La storia vera che ha ispirato Nabokov è quella di un professore di letteratura francese attratto dalle fanciulle; le sue pulsioni perverse derivano probabilmente da un amore inappagato per una bambina morta prematuramente, quando lui era ancora dodicenne. Un qualunque lettore, allora, si sarebbe potuto aspettare un crescendo di scene erotiche, parole o immagini oscene di un “maniaco”. Invece, la bellezza del romanzo – come dell’adattamento cinematografico diretto da Stanley Kubrick – sta proprio nell’evitare banali volgarità, preferendo un linguaggio raffinato e ricercato, che pone in primo piano le confessioni di un uomo frustrato, solo, ma soprattutto innamorato.
Nabokov firmò la sceneggiatura del film che però fu ampiamente e liberamente manipolata da Kubrick, che si è sempre ispirato alla letteratura per la realizzazione delle sue pellicole. “Lolita” – suo sesto lungometraggio – “sfrutta” la potenza del romanzo di Nabokov per mettere in scena aspetti reconditi di un’ossessione, il delirio personale, la violenza, l’erotismo. Avendo tutti gli strumenti per poterlo fare, Kubrick indaga i sogni inconfessabili, coglie il realismo più autentico di una società falsamente bigotta che ritiene che compiere determinati atti in segreto escluda dalle responsabilità e dalle colpe. La realizzazione del film è stata particolarmente difficile sia per la gestazione che per l’accoglienza. L’obbligo di confronto con Nabokov ha comportato moltissime critiche: si accusava Kubrick di mancanza di coerenza nella narrazione e di aver raccontato in modo distorto il personaggio di Lolita. In realtà, da parte del regista di “2001: Odissea nello spazio” non c’è mai stata l’intenzione di trasporre fedelmente il romanzo, ma solo la volontà di assorbirne le tematiche. Alcuni personaggi sono stati eliminati, alcune metafore non sono presenti, molte sequenze sono state virate verso il “grottesco”.
Nel film ogni personaggio viene replicato nel suo “doppio”. Humbert Humbert inizialmente si presenta come un uomo molto pacato ed equilibrato: gradualmente la follia lo pervade fino a portarlo all’ossessione e alla perdita di lucidità. Per mantenersi aperta la possibilità di soddisfare un giorno – non troppo lontano, prima che Lolita cresca – le sue “insane voglie”, Humbert decide di sposare la madre. Dopo la morte casuale (ma provvidenziale) di lei in un incidente, il professore riesce a dar vita ai suoi sogni. Il suo desiderio di possesso emerge lentamente, fino a diventare insostenibile: Humbert sente il bisogno di controllare ogni aspetto della vita di Lolita, di conoscere ogni suo spostamento e persino ogni suo conoscente. Una vera e propria ossessione. Quilty (cioè “guilty”, colpevole), invece, è espressione della legge ma anche dei suoi impulsi. Lolita, poi, prova repulsione nei confronti della madre, ma al tempo stesso le somiglia nel suo essere una maliziosa provocatrice. La “Lolita” di Kubrick è ammiccante e sa di esserlo, è un personaggio inafferrabile e complesso. Kubrick punta sul delirio morboso per Lolita, enfatizzando la dimensione grottesca degli altri personaggi. Cosa può voler dire – negli anni Sessanta con Kubrick e Cinquanta con Nabokov – parlare di un “amore” di questa natura? Oggi come allora, un legame del genere non si comprende né si accetta facilmente. Ci si domanda come possa una ragazzina affascinare un uomo adulto al punto di sposare sua madre pur di starle vicino. Nonostante il desiderio insano, il personaggio di Humbert è autentico: è un uomo schiavo dei suoi conflitti erotici che è disposto ad umiliarsi pur di arrivare a Lolita. Eppure, pur non essendoci scene scabrose, il desiderio del professore verso la sua “ninfetta” è tangibile, reale, sincero.
Nonostante i limiti imposti dalla censura, “Lolita” – paradossalmente – è la rappresentazione di un legame libero. Non si tratta di un uomo che con la forza cerca di ottenere attenzioni da parte di un’adolescente, ma di una ragazzina-seduttrice consapevole del suo fascino, stratega, calcolatrice e persino approfittatrice. “Lolita” è una storia di sensualità, eccessi e pulsioni sessuali represse. Un film che mette a tacere l’ipocrisia dell’America degli anni Sessanta e che ispira successive opere – come “American Beauty” di Sam Mendes – e che va oltre la semplicistica critica e denuncia sociale, offrendo un resoconto cinico e veritiero di una vicenda scabrosa. La pellicola viene concepita proprio come provocatoria e di forte impatto. In fondo, tutto il mondo di Kubrick è spietato e violento: i personaggi si palesano senza filtri o congetture. Siamo sicuri di poter affermare che vicende del genere non si siano presentate – o si presentino – e si è preferito celarle per mantenere intaccata la facciata perbenista? La “Lolita” di Kubrick è un’opera ancora attuale perché è la storia di una disgregazione di una personalità che deriva da una morbosità irrefrenabile. Non si tratta di stabilire che il legame sia giusto o sbagliato (perché non avrebbe proprio senso starne a discutere), né di valutare l’entità del danno: “Lolita” è un’opera rivoluzionaria, diretta e volutamente licenziosa.