UN BORGHESE PICCOLO PICCOLO, DI MARIO MONICELLI: IN BILICO TRA L’IRONIA E LA PAURA

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Giovanni (Alberto Sordi), è impiegato al ministero, ha un figlio ragioniere e una moglie casalinga. Appena viene a conoscenza di un concorso i cui vincitori verranno assunti al ministero, le prova tutte, muovendosi nel grande universo clientelare delle raccomandazioni (spinto dall’idea di “sistemare” il proprio figlio), arrivando persino a farsi massone. Il giorno del concorso, quando ci si aspetta di assistere al tragicomico tentativo di un raccomandato povero e imbranato di fregare tutti sul lavoro, la pellicola cambia tono e sprofonda in una dimensione di cupezza disarmante: l’atmosfera scivola verso un dramma asfissiante, violento e vendicativo.

Monicelli si muove in bilico tra l’ironia e la paura. Nella prima parte del film si è totalmente ignari del fatto che si sta in realtà ridendo anche di se stessi, di quella società di cui facciamo parte anche noi: una società che ha smarrito il sistema dei valori, del buon senso, che annienta le coscienze civili. L’unico espediente a cui ricorrere è, dunque, la giustizia privata, che fa agire in maniera feroce ma anche lucida e consapevole. Monicelli disegna la sua opera mosso da un inguaribile pessimismo di indubbia lungimiranza: “Un borghese piccolo piccolo” è una pellicola drammaticamente attuale, è un racconto intriso di una assoluta sfiducia sul possibile progresso di un Paese che sembra aver perduto ogni sentimento collettivo in favore di un individualismo squilibrato e scorretto. Il “Sordi” drammatico trova il suo apice proprio in quest’opera di Mario Monicelli, maestro indiscusso della commedia all’italiana, che decise di adattare, a metà degli anni Settanta, per il grande schermo l’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami, affidando l’inedito ruolo di Giovanni Vivaldi proprio ad Alberto Sordi. 

Cosa succede una volta che si viene corrotti dalla “banalità del male”? Non esiste più nessuna etica, nessun discernimento tra giusto e sbagliato; una volta che la personalità si “adegua” ad agire senza ideali, non ci saranno più esitazioni a sporcarsi le mani. E la cosa paradossale è che quello che sembra guidare queste azioni è proprio il desiderio di mettersi a posto la coscienza, ma utilizzando dei propri e personali “strumenti”. La parabola esistenziale messa in scena da Monicelli è drammaticamente illuminante: tutte le aspettative riversate da Vivaldi nei confronti del figlio svaniscono e l’unica possibile soluzione diventa rendergli giustizia, non attraverso l’ausilio degli organi competenti, ma affidandosi solo a se stesso. Che cosa accadrebbe se ognuno di noi decidesse di riscattarsi dei torti subiti agendo senza seguire regole etiche e ignorando le conseguenze? Ne verrebbe fuori una follia senza precedenti. “Un borghese piccolo piccolo” suggerisce una riflessione complessa: proprio mentre si sta compiendo quel passo verso la vita “comoda” qualcosa di imprevedibile sconvolge i piani. Ma se “L’importante è avere un piano” – come ha affermato con astuzia anche “Parasite” – e quello stesso piano studiato meticolosamente fallisce, siamo davvero sicuri che sia così facile rimanere “umani”? Monicelli mette in scena il Potere, quello che aveva descritto anche Tiziano Terzani: “…perché il Potere corrompe, il Potere ti fagocita, il Potere ti tira dentro di sé”. Siamo certi, però, che mettere in atto un piano spietato di vendetta non equivalga a conformarsi alla stessa mentalità di chi detiene il Potere? Dopo che la società ha costretto gli uomini a lavori monotoni e spesso logoranti per tutta una vita, non si arriva, forse, ad un momento in cui si prova ammirazione nei confronti di chi ha le capacità di farsi avanti nella vita, pur non meritandolo? È facile opporsi senza avere il coraggio di sottrarsi a questi meccanismi corrotti. Il “farsi giustizia da sé” (tema centrale, ad esempio, ne “Il segreto dei suoi occhi”), diventa, dunque, un concetto sul quale soffermarsi.

Monicelli, partendo da una minuscola borghesia compie un atto di accusa nei confronti dell’intera collettività arrivista e asservita a quel Potere. “Un borghese piccolo piccolo” è un ritratto feroce di un’Italia egoista e disillusa che ci fa sentire così “piccoli” nei confronti di una mentalità così radicata: ci rendiamo subito conto che non c’è spazio per la risata, ma solo per una lucida e tutt’altro che consolatoria presa di coscienza. Ed è proprio la cifra stilistica della commedia all’italiana la capacità di deformare – anche in maniera spietata – la realtà estremizzando situazioni e personaggi. Quell’armonia che si era faticosamente conquistata – anche grazie a “compromessi massonici” – può essere stravolta: quella violenza “addormentata” troverà allora modo di esprimersi, abbandonando i vecchi strumenti e anteponendo la richiesta di sicurezza e tutela personale ai precedenti ideali. 

È difficile valutare cosa sia peggio: programmare il benessere, cercare di “sistemarsi” e accettare qualsiasi implicazione o decidere di vendicarsi dopo essersi resi conto del fallimento di quei “valori”? 

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