Se è difficile definire non solo l’esperienza di guardare un film di David Lynch, ma persino la stessa natura di quello che si è visto (a causa delle reazioni deliranti che scaturiscono), è perché l’inquietudine, in tutta la sua indeterminatezza, si trova nel nucleo stesso del lavoro di questo regista. Lynch lavora con tutti gli elementi disponibili del cinema, mobilita ogni aspetto del processo di realizzazione di un film per esprimere questa inafferrabile qualità. La sua sensibilità per le strutture del suono e dell’immagine, per i ritmi del linguaggio e del movimento, per lo spazio, il colore e il potere intrinseco della musica, lo rendono unico da questo punto di vista. Lynch – grazie anche e soprattutto alla sua formazione come pittore – è un regista che lavora all’epicentro stesso del mezzo filmico. Gli stati d’animo che lo stimolano di più sono quelli che si avvicinano alle sensazioni e alle tracce emotive dei sogni, il modo di raccontare del cinema “tradizionale” – con la sua esigenza di logica e leggibilità – è perciò di scarso interesse per Lynch.
Ci troviamo in un contesto in cui i mondi – sia reali che immaginari – si scontrano. Il senso di “disagio” nei suoi film è in parte un prodotto di questo mescolamento tra generi, che viene percepito dal pubblico come assenza di quelle regole e convenzioni in grado di fornire conforto e – cosa ancora più importante – di fungere da mezzo di orientamento. L’indefinibile stato d’animo che i film di Lynch comunicano è strettamente collegato a una forma di disorientamento che lui definisce “essere perso nell’oscurità e nella confusione”. È qui che l’inquietante viene alla luce. E non risiede semplicemente in tutto ciò che è strano, bizzarro o grottesco; ed è l’opposto di quelle cose che, in virtù della loro esagerazione, rifiutano di provocare paura. Le caratteristiche dell’inquietante, di ciò che Freud definì “il campo di ciò che spaventa”, sono quelle del timore più che del vero terrore, della percezione di presenze più che della loro apparizione. Esso trasforma il “familiare” in “non familiare”, producendo un allarmante senso di estraneità da ciò che è da sempre percepito come familiare. Per dirla con Freud: “L’inquietante è tale proprio in quanto fin troppo familiare, ed è questo il motivo per cui viene rimosso”. Ecco l’essenza del cinema di Lynch.
“Velluto blu” è la sintesi perfetta di un’estetica e di ossessioni tematiche peculiari con le esigenze più tradizionali del racconto cinematografico. Al contempo sconvolgente ed esilarante, il film rimane ancora oggi una pellicola di spicco nel panorama americano degli anni Ottanta. Nel corso della realizzazione, il regista conosce Angelo Badalamenti, che è oggi un componente imprescindibile del suo mondo: il compositore ha contribuito a rendere indimenticabile l’immaginario lynchiano grazie al suo talento per la melodia malinconica. “Velluto blu” ha liberato la fascinazione del cineasta per il sesso inteso come sede di traumi di carattere domestico, paure, potere e, occasionalmente, pulsioni euforiche. Naturalmente, gli estremi sessuali di “Velluto blu” e la forza con la quale vengono presentati allo spettatore provocano un certo grado di scandalo e di confusione morale; l’innegabile “artisticità” del film è stata spesso citata come l’autentica radice della sua natura discutibile o persino pericolosa. “Velluto blu” è uno di quei film verso cui si è pro o contro.
Un attimo prima un cielo terso e folgorante, quello dopo un orecchio mozzato: l’incipit mette in chiaro la natura perversa e violenta che caratterizzerà l’intero film. Dietro la facciata di un’ordinaria vita di provincia si nascondono depravazioni, morbosità, in definitiva il “Male”; l’orecchio rappresenta un’“apertura” (al posto che “aprire le porte” ad un universo oscuro che rompe l’idillio della normalità, si aprono le “orecchie”) che conduce a qualcosa di vasto. Jeffrey si trova – in parte inconsapevolmente – coinvolto in una vicenda surreale. Incuorisito da Dorothy Vallens, un’avvenente cantante di un nightclub, finisce per diventare un voyeur: è la perversione ad affascinarlo, il contrasto tra le atmosfere ovattate della sua cittadina e tutto quello che si annida al suo interno.
Lynch firma un’opera libera, scomoda, fuori dalle regole. Le parole non sono sufficienti a fornire una definizione esaustiva. Forse, così come Lynch si serve di altre forme d’arte per dare maggiore valore e attribuire significato alle sue opere, così non ci si può ridurre ad una mera analisi, ma è necessario approfondire. È con questa opera “maledetta” che Lynch disegna i contorni del suo cinema. Le violenze, il sadomasochismo, i personaggi “devianti” entrano per la prima volta nel suo immaginario: le sue opere successive saranno caratterizzate dalla coesistenza – più o meno pacifica – di sogni e incubi, di “bene” e “male”. “Velluto blu” sortisce sensazioni torbide: il senso di meraviglia è affascinante ma al tempo stesso frustrante, in un ciclo potenzialmente infinito. Non esiste una definizione assoluta , nonostante il desiderio dello spettatore di dare un senso alle immagini e alla storia. Il valore essenziale va riscontrato nel “non-detto” e nel “non-identificato”: “Velluto blu” è un’opera concreta ma anche evocativa e misteriosa. Proviamo a stare al gioco.
“Tutto ciò che vediamo o a cui rassomigliamo, è soltanto un sogno dentro un sogno”, Edgar Allan Poe (“Sogno in un sogno”)